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Amiloidosi ereditaria da transtiretina, patisiran rimborsabile per il paziente italiano. La parola all'esperto, il prof. Claudio Rapezzi
Lunedi 10 Febbraio 2020 Emilia Vaccaro
L’amiloidosi ereditaria da transtiretina è una malattia genetica che in passato si pensava avesse solo natura neurologica. Oggi sappiamo che il fenotipo misto (neurologico più cardiologico) è il più diffuso e che è necessario diagnosticare più precocemente possibile la malattia per iniziare subito un trattamento con terapie innovative. Anche il paziente italiano, infatti, ha la possibilità di essere trattato con patisiran, terapia basata sull’ RNA interference che è ora anche rimborsabile dal Servizio Sanitario Nazionale. Abbiamo cercato di capire meglio a cosa è dovuta la malattia, come si manifesta e come oggi è possibile bloccare la sua evoluzione grazie a questa nuova molecola con il prof. Claudio Rapezzi dell’Università di Ferrara che abbiamo incontrato a Bologna durante la conferenza stampa “L’innovazione terapeutica per il trattamento delle malattie rare”. Cos’è l’amiloidosi ereditaria da transtiretina?
L’amiloidosi mediata da transtiretina (TTR) ereditaria (hATTR) è una malattia ereditaria progressivamente invalidante e spesso con esito fatale, causata da mutazioni nel gene TTR.
La malattia è dovuta a modifiche della proteina transtiretina che per il 98-99% è prodotta dal fegato. Questa proteina circola nel sangue trasportando gli ormoni della tiroide e qualche vitamina. È una proteina con azione fisiologica ma, quando è oggetto di una mutazione, ben presto la struttura molecolare complessa si sfalda e si forma un polimero, una fibrilla che penetra nei tessuti danneggiandoli. L’infiltrazione può essere a carico dei nervi, quelli periferici essenzialmente e/o del cuore, ciò dipende dal tipo di mutazione.
È una malattia di origine genetica che più che rara, è sottodiagnosticata. Se ci focalizziamo alla forma ereditaria, non conosciamo un numero preciso dei pazienti italiani affetti ma abbiamo un ordine di grandezza che va dai 1000 ai 2000 soggetti, anche se diagnosticati e seguiti in centri di riferimento ad oggi sono poche centinaia.
A seconda della mutazione la penetranza della malattia è molto variabile, per la maggior parte delle forme che vediamo in Europa la penetranza è intorno al 50-60% quindi più della metà dei soggetti portatori svilupperà la malattia; per altre forme ad interessamento prevalentemente cardiaco la penetranza è molto bassa.
Qual è stata l’evoluzione nel trattamento dei pazienti?
Circa venti anni fa si pensò che sarebbe bastato un trapianto di fegato per gestire questi pazienti visto che è il fegato a produrre la quasi totalità della proteina mutata. In effetti il trapianto ha rappresentato l’unica forma chirurgica di trattamento in passato e rimane tuttora una valida scelta terapeutica. È particolarmente adatto a curare un certo tipo di mutazione, la Val 30 Met che è frequente in Portogallo e in Brasile ed ha unicamente interessamento neurologico.
Purtroppo, il fegato trapiantato produce anche lui una proteina transtiretina che non è mutata. Per cui nel soggetto che è andato incontro al trapianto di fegato piccole infiltrazioni locali e periferiche di amiloidosi, per un effetto che i medici chiamano effetto nido, richiamano la normale transtiretina circolante, la attraggono nei nidi e quindi nei tessuti e inducono velocemente la formazione di nuova amiloide. Di conseguenza il soggetto sta bene per 1-2 anni dopo il trapianto di fegato ma passato questo lasso di tempo sviluppa nuovamente la malattia.
Hanno cominciato ad affacciarsi alcuni trattamenti come i farmaci stabilizzanti che non incidono sulla produzione di transtiretina ma inducono una stabilizzazione di quella prodotta in modo da evitare lo sfaldamento della proteina.
L’idea oggi è quella di bloccare la produzione globale di transtiretina e non di sostituire la produzione di una transtiretina “ammalata” con una “sana” e neanche di stabilizzarla. Nell’organismo abbiamo tanta transtiretina quindi se riuscissimo a bloccare il 90-95% della sua produzione probabilmente sarebbe sufficiente per risolvere il problema.
L’evoluzione è passare dal trapianto chirurgico a una sorta di trapianto chimico bloccando la produzione della proteina. Ed è quello che si può ottenere con gli small interfering RNA che possono penetrare dentro la cellula epatica, attaccarsi all’RNA messaggero e impedire di codificare il messaggio di costruzione della proteina che viene dal DNA. Questo è uno scenario fantastico perché non solo evita il trauma chirurgico del trapianto ma agisce molto più a monte del trapianto, abolendo al massimo la produzione della transtiretina.
Quanto è importante la multidisciplinarietà nella gestione del paziente?
Molte forme familiari hanno contemporaneamente sia una componente neurologica che problemi cardiaci, quindi hanno un fenotipo misto neurologico e cardiaco.
Questa malattia, sia sul versante neurologico che sul versante cardiologico, è una grande simulatrice di altre malattie, gli inglesi la chiamano “The Great Pretender” perché simula altre malattie e ciò determina il ritardo diagnostico e pertanto è fondamentale il continuo confronto tra gli esperti neurologo e cardiologo.
Tra i primi sintomi e la diagnosi finale passano dai 2 ai 7 anni che è un lasso di tempo importante considerando l’evoluzione di questa malattia.
Quali sono i campanelli d’allarme?
Ci sono dei sintomi che fungono da red flag e quindi dovrebbero evocare il sospetto nel medico; dal punto di vista neurologico la malattia può esordire con disturbi di tipo sensitivo e poi motorio che tipicamente vanno dalla periferia delle dita fino al centro. Spesso ci sono associate patologie delle piccole fibre, disturbi della sfera autonomica come problemi ad urinare, nell’erezione nel maschio, intestinali, ipotensione e in alcuni rarissimi casi manifestazioni che riguardano l’occhio.
Come si diagnostica?
È fondamentale conoscere la malattia ed instradare il paziente verso un percorso specifico. Lo strumento principe per la diagnosi, dopo il sospetto diagnostico, è fare il test genetico per verificare l’esistenza della mutazione; l’altro strumento è di tipo istologico e quindi la biopsia. A livello cardiaco lo strumento principe in questo momento è un esame non invasivo a basso costo e cioè la scintigrafia con tracciante osseo quella che in genere viene eseguita per scoprire metastasi ossee o problematiche osteo-articolari.
Quindi, il problema non è la mancanza di strumenti diagnostici ma la debolezza del sospetto diagnostico.
È importante parlarne all’interno delle società scientifiche come quella neurologica, cardiologica e della medicina interna e in ogni occasione possibile tipicamente congressi medici. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i simposi e seminari che parlano di questa malattia perché questo investimento in conoscenza è fondamentale per aumentare le diagnosi. Soltanto se il medico conosce la malattia può sospettarla.
Cos' è patisiran e in cosa consiste la sua innovatività?
Patisiran ha appena avuto la rimborsabilità in classe H per il trattamento delle forme ereditarie in cui ci sono casi sia solo neurologici ma anche casi con fenotipo misto nei pazienti adulti con polineuropatia allo stadio 1 o 2.
L’AIFA ha attribuito a patisiran il requisito della innovatività terapeutica e verrà inserito con tale approvazione nei prontuari terapeutici regionali e anche nell’elenco dei farmaci innovativi.
La sua messa a punto trae origine da una scoperta scientifica vincitrice del premio Nobel ed è il primo agente terapeutico basato sulla tecnologia RNA Interference (RNAi) a essere stato approvato a livello mondiale.
La sua scoperta ha consentito di sviluppare una nuova classe di medicinali che, andando a silenziare l'RNA messaggero e impedendo l'espressione di uno specifico gene, riescono a bloccare la sintesi di una determinata proteina. Questo approccio rivoluzionario consente, quindi, di 'spegnere' la produzione di una proteina patologica, anziché affrontarne gli effetti nell’organismo.
Servono centri specialistici per la somministrazione del farmaco?
Il farmaco va somministrato endovena con una periodicità di una infusione ogni 3 settimane circa (la flebo dura circa 2 ore) in un contesto che è quello del day hospital o dell’ambulatorio attrezzato di un ospedale con maggiore attenzione nelle prime infusioni ad eventuali reazioni allergiche. In genere, almeno le prime infusioni vengono fatte in un centro di riferimento che tipicamente ha un neurologo al centro del programma prescrittivo auspicabilmente in un contesto di rete.
La mia esperienza in merito è limitata a due casi con interessamento misto e altri due probabilmente inizieranno a breve. È un trattamento fattibilissimo e non ho osservato direttamente reazioni immuno-allergiche.
A Bologna abbiamo un centro di riferimento per l’amiloidosi con una grande interazione tra neurologia e cardiologia presso l’Ospedale Bellaria, lo stesso centro sta avviando un ambulatorio anche a Ferrara e ci sono altri centri in Emilia-Romagna con un’alta sensibilità alla diagnostica dell’amiloidosi. In Italia ci sono centri specialistici sparsi lungo tutta la penisola dove viene inizializzato il piano terapeutico.
Si va sempre più verso il modello di hATTR clinic che è un modello presente all’estero e sarà auspicabilmente anche da adottare in Italia dove gli specialisti lavorano fianco a fianco per una presa in carico totale del paziente.
Cosa si può fare oggi per non far progredire la malattia?
È fondamentale conoscere la malattia per poterla sospettare, proseguire con l’indagine genetica ed estendere tale indagine anche ai familiari.
La malattia va diagnosticata il prima possibile per trattarla tempestivamente; se diagnosticata e trattata in una fase iniziale è possibile “congelare” la malattia. I farmaci attualmente a disposizione non consentono un ritorno indietro completo della malattia ma grazie a patisiran le lancette dell’orologio un po' indietreggiano e soprattutto viene bloccata l’evoluzione ulteriore della malattia. Silenziamento genico e small interfering RNA sono dei mattoni essenziali per fermare la malattia.
È fondamentale anche lo screening familiare che va eseguito appena scoperta la mutazione coinvolgendo tutta la famiglia con uno screening a cascata. Fortunatamente il contesto familiare di un portatore è quello più favorevole per trovare altri casi. Il problema è di muoversi bene anche nei contesti in cui non è nota la presenza della mutazione; in questo caso sintomi neurologici molte volte diagnosticati in modo impreciso e aspecifico, e sintomi di scompenso cardiaco e aritmie vanno approfonditi senza fermarsi a diagnosi generiche.
L’amiloidosi mediata da transtiretina (TTR) ereditaria (hATTR) è una malattia ereditaria progressivamente invalidante e spesso con esito fatale, causata da mutazioni nel gene TTR.
La malattia è dovuta a modifiche della proteina transtiretina che per il 98-99% è prodotta dal fegato. Questa proteina circola nel sangue trasportando gli ormoni della tiroide e qualche vitamina. È una proteina con azione fisiologica ma, quando è oggetto di una mutazione, ben presto la struttura molecolare complessa si sfalda e si forma un polimero, una fibrilla che penetra nei tessuti danneggiandoli. L’infiltrazione può essere a carico dei nervi, quelli periferici essenzialmente e/o del cuore, ciò dipende dal tipo di mutazione.
È una malattia di origine genetica che più che rara, è sottodiagnosticata. Se ci focalizziamo alla forma ereditaria, non conosciamo un numero preciso dei pazienti italiani affetti ma abbiamo un ordine di grandezza che va dai 1000 ai 2000 soggetti, anche se diagnosticati e seguiti in centri di riferimento ad oggi sono poche centinaia.
A seconda della mutazione la penetranza della malattia è molto variabile, per la maggior parte delle forme che vediamo in Europa la penetranza è intorno al 50-60% quindi più della metà dei soggetti portatori svilupperà la malattia; per altre forme ad interessamento prevalentemente cardiaco la penetranza è molto bassa.
Qual è stata l’evoluzione nel trattamento dei pazienti?
Circa venti anni fa si pensò che sarebbe bastato un trapianto di fegato per gestire questi pazienti visto che è il fegato a produrre la quasi totalità della proteina mutata. In effetti il trapianto ha rappresentato l’unica forma chirurgica di trattamento in passato e rimane tuttora una valida scelta terapeutica. È particolarmente adatto a curare un certo tipo di mutazione, la Val 30 Met che è frequente in Portogallo e in Brasile ed ha unicamente interessamento neurologico.
Purtroppo, il fegato trapiantato produce anche lui una proteina transtiretina che non è mutata. Per cui nel soggetto che è andato incontro al trapianto di fegato piccole infiltrazioni locali e periferiche di amiloidosi, per un effetto che i medici chiamano effetto nido, richiamano la normale transtiretina circolante, la attraggono nei nidi e quindi nei tessuti e inducono velocemente la formazione di nuova amiloide. Di conseguenza il soggetto sta bene per 1-2 anni dopo il trapianto di fegato ma passato questo lasso di tempo sviluppa nuovamente la malattia.
Hanno cominciato ad affacciarsi alcuni trattamenti come i farmaci stabilizzanti che non incidono sulla produzione di transtiretina ma inducono una stabilizzazione di quella prodotta in modo da evitare lo sfaldamento della proteina.
L’idea oggi è quella di bloccare la produzione globale di transtiretina e non di sostituire la produzione di una transtiretina “ammalata” con una “sana” e neanche di stabilizzarla. Nell’organismo abbiamo tanta transtiretina quindi se riuscissimo a bloccare il 90-95% della sua produzione probabilmente sarebbe sufficiente per risolvere il problema.
L’evoluzione è passare dal trapianto chirurgico a una sorta di trapianto chimico bloccando la produzione della proteina. Ed è quello che si può ottenere con gli small interfering RNA che possono penetrare dentro la cellula epatica, attaccarsi all’RNA messaggero e impedire di codificare il messaggio di costruzione della proteina che viene dal DNA. Questo è uno scenario fantastico perché non solo evita il trauma chirurgico del trapianto ma agisce molto più a monte del trapianto, abolendo al massimo la produzione della transtiretina.
Quanto è importante la multidisciplinarietà nella gestione del paziente?
Molte forme familiari hanno contemporaneamente sia una componente neurologica che problemi cardiaci, quindi hanno un fenotipo misto neurologico e cardiaco.
Questa malattia, sia sul versante neurologico che sul versante cardiologico, è una grande simulatrice di altre malattie, gli inglesi la chiamano “The Great Pretender” perché simula altre malattie e ciò determina il ritardo diagnostico e pertanto è fondamentale il continuo confronto tra gli esperti neurologo e cardiologo.
Tra i primi sintomi e la diagnosi finale passano dai 2 ai 7 anni che è un lasso di tempo importante considerando l’evoluzione di questa malattia.
Quali sono i campanelli d’allarme?
Ci sono dei sintomi che fungono da red flag e quindi dovrebbero evocare il sospetto nel medico; dal punto di vista neurologico la malattia può esordire con disturbi di tipo sensitivo e poi motorio che tipicamente vanno dalla periferia delle dita fino al centro. Spesso ci sono associate patologie delle piccole fibre, disturbi della sfera autonomica come problemi ad urinare, nell’erezione nel maschio, intestinali, ipotensione e in alcuni rarissimi casi manifestazioni che riguardano l’occhio.
Come si diagnostica?
È fondamentale conoscere la malattia ed instradare il paziente verso un percorso specifico. Lo strumento principe per la diagnosi, dopo il sospetto diagnostico, è fare il test genetico per verificare l’esistenza della mutazione; l’altro strumento è di tipo istologico e quindi la biopsia. A livello cardiaco lo strumento principe in questo momento è un esame non invasivo a basso costo e cioè la scintigrafia con tracciante osseo quella che in genere viene eseguita per scoprire metastasi ossee o problematiche osteo-articolari.
Quindi, il problema non è la mancanza di strumenti diagnostici ma la debolezza del sospetto diagnostico.
È importante parlarne all’interno delle società scientifiche come quella neurologica, cardiologica e della medicina interna e in ogni occasione possibile tipicamente congressi medici. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i simposi e seminari che parlano di questa malattia perché questo investimento in conoscenza è fondamentale per aumentare le diagnosi. Soltanto se il medico conosce la malattia può sospettarla.
Cos' è patisiran e in cosa consiste la sua innovatività?
Patisiran ha appena avuto la rimborsabilità in classe H per il trattamento delle forme ereditarie in cui ci sono casi sia solo neurologici ma anche casi con fenotipo misto nei pazienti adulti con polineuropatia allo stadio 1 o 2.
L’AIFA ha attribuito a patisiran il requisito della innovatività terapeutica e verrà inserito con tale approvazione nei prontuari terapeutici regionali e anche nell’elenco dei farmaci innovativi.
La sua messa a punto trae origine da una scoperta scientifica vincitrice del premio Nobel ed è il primo agente terapeutico basato sulla tecnologia RNA Interference (RNAi) a essere stato approvato a livello mondiale.
La sua scoperta ha consentito di sviluppare una nuova classe di medicinali che, andando a silenziare l'RNA messaggero e impedendo l'espressione di uno specifico gene, riescono a bloccare la sintesi di una determinata proteina. Questo approccio rivoluzionario consente, quindi, di 'spegnere' la produzione di una proteina patologica, anziché affrontarne gli effetti nell’organismo.
Servono centri specialistici per la somministrazione del farmaco?
Il farmaco va somministrato endovena con una periodicità di una infusione ogni 3 settimane circa (la flebo dura circa 2 ore) in un contesto che è quello del day hospital o dell’ambulatorio attrezzato di un ospedale con maggiore attenzione nelle prime infusioni ad eventuali reazioni allergiche. In genere, almeno le prime infusioni vengono fatte in un centro di riferimento che tipicamente ha un neurologo al centro del programma prescrittivo auspicabilmente in un contesto di rete.
La mia esperienza in merito è limitata a due casi con interessamento misto e altri due probabilmente inizieranno a breve. È un trattamento fattibilissimo e non ho osservato direttamente reazioni immuno-allergiche.
A Bologna abbiamo un centro di riferimento per l’amiloidosi con una grande interazione tra neurologia e cardiologia presso l’Ospedale Bellaria, lo stesso centro sta avviando un ambulatorio anche a Ferrara e ci sono altri centri in Emilia-Romagna con un’alta sensibilità alla diagnostica dell’amiloidosi. In Italia ci sono centri specialistici sparsi lungo tutta la penisola dove viene inizializzato il piano terapeutico.
Si va sempre più verso il modello di hATTR clinic che è un modello presente all’estero e sarà auspicabilmente anche da adottare in Italia dove gli specialisti lavorano fianco a fianco per una presa in carico totale del paziente.
Cosa si può fare oggi per non far progredire la malattia?
È fondamentale conoscere la malattia per poterla sospettare, proseguire con l’indagine genetica ed estendere tale indagine anche ai familiari.
La malattia va diagnosticata il prima possibile per trattarla tempestivamente; se diagnosticata e trattata in una fase iniziale è possibile “congelare” la malattia. I farmaci attualmente a disposizione non consentono un ritorno indietro completo della malattia ma grazie a patisiran le lancette dell’orologio un po' indietreggiano e soprattutto viene bloccata l’evoluzione ulteriore della malattia. Silenziamento genico e small interfering RNA sono dei mattoni essenziali per fermare la malattia.
È fondamentale anche lo screening familiare che va eseguito appena scoperta la mutazione coinvolgendo tutta la famiglia con uno screening a cascata. Fortunatamente il contesto familiare di un portatore è quello più favorevole per trovare altri casi. Il problema è di muoversi bene anche nei contesti in cui non è nota la presenza della mutazione; in questo caso sintomi neurologici molte volte diagnosticati in modo impreciso e aspecifico, e sintomi di scompenso cardiaco e aritmie vanno approfonditi senza fermarsi a diagnosi generiche.