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Test, tamponi, mutazioni: il punto su Sars-Cov2 con un microbiologo
Che differenza c’è tra i diversi tipi di test? La carica virale sta diminuendo? Esistono positivi a Covid-19 non più infettanti? Risponde Edoardo Carretto direttore del laboratorio di microbiologia clinica, presso l’Irccs Santa Maria Nova a Reggio Emilia *IN COLLABORAZIONE CON BIOMÉRIEUX ITALIA
9 Luglio 2020
Anche a Reggio Emilia, presso l’IRCCS Arcispedale Santa Maria Nuova, negli ultimi tempi si è rilevato che i tamponi di soggetti positivi a SARS-CoV-2 presentano spesso amplificazioni tardive al test molecolare, verosimilmente correlate a basse cariche virali. Chi risulta positivo al tampone insomma, non è detto che abbia nel proprio organismo una quantità di virus tale da infettare altri soggetti. Lo aveva già sostenuto Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, seguito poi da altri ricercatori ed esperti. Come Edoardo Carretto, appunto, direttore del Laboratorio di Microbiologia, presso il presidio emiliano, che in una video intervista ad AboutPharma and Medical Devices ricorda anche quali sono gli strumenti per la diagnosi di COVID-19.
Test e tamponi
Una patologia infettiva può essere diagnosticata mediante metodiche dirette, cioè andando a cercare la presenza dell’agente patogeno nei materiali biologici tramite indagini colturali o metodiche molecolari (per COVID-19 l’utilizzo del tampone rinofaringeo è ad oggi la metodica in grado di formulare una diagnosi certa di malattia), oppure tramite metodiche indirette, quali i test sierologici, che forniscono informazioni sull’avvenuto contatto tra organismo e patogeno, tramite la ricerca di anticorpi specifici. I test sierologici sono uno strumento importante per stimare la diffusione dell’infezione nella comunità, essendo in grado di identificare l’infezione da Sars-CoV-2 anche in individui asintomatici o con sintomatologia lieve. Inoltre, posso essere utili per definire più correttamente la reale diffusibilità dell’infezione virale perché misurano, con maggiore precisione, il numero di soggetti contagiati da Sars-CoV-2.
Oltre che in ambito epidemiologico, un test sierologico può essere utile nell’ambito di una corretta definizione diagnostica quando il test RT-PCR risulti negativo, nonostante sintomi e segni suggestivi di infezione da Sars-CoV-2.
Sul mercato sono oggi disponibili diversi test sierologici, dai più rapidi e meno specifici (immunocromatografici) per arrivare all’analisi d’elezione effettuata su esame da prelievo endovenoso con tecnologie differenti (ELISA, chemiluminescenza). L’affidabilità di un test sierologico dipende dalle sue caratteristiche di specificità e sensibilità. È fortemente raccomandato l’utilizzo di test del tipo CLIA e/o ELISA e/o ELFA che presentino una specificità non inferiore a 95% e una sensibilità non inferiore al 90%, come indicato in molte linee guida, per consentire di ridurre il numero di risultati falsi positivi e falsi negativi.
Moltissimi percorsi di monitoraggio delle Regioni prevedono un’indagine di sorveglianza delle categorie più a rischio, compresi i contatti stretti di pazienti con diagnosi nota di COVID-19 e gli operatori sanitari e socio-sanitari. Lo scopo è proprio quello di valutare periodicamente soggetti senza sintomi per verificarne lo stato sierologico e rilevare l’eventuale presenza del virus con metodiche RT-PCR nei soggetti che risultano positivi per gli anticorpi IgM e/o IgG, permettendo in questo modo di migliorare le misure di protezione della popolazione.
Sono inoltre in sviluppo altri approcci diagnostici, quali ricerche degli antigeni virali, sia in immunocromatografia che con altre metodiche, oppure test salivari con diverse metodiche di rilevazione. Sarà necessario attendere la loro disponibilità per avere dati robusti sulla loro sensibilità e specificità e stabilirne l’ambito di utilizzo.
Domande senza risposta (per ora)
A proposito di anticorpi sviluppati contro SARS-CoV-2, le domande in attesa di risposta sono ancora tante, come ricorda Carretto.
Fra i maggiori problemi non ancora risolti stante la comparsa recente di COVID-19, è stabilire se (I) gli anticorpi anti-SARS-CoV-2 neutralizzanti, cioè efficaci per neutralizzare l’azione patogena del virus sull’organismo, siano sufficienti per garantire a un soggetto un’immunità, ancorché transitoria, e (II) la durata della loro persistenza nel sangue. Dati incoraggianti sul primo aspetto sono emersi di recente, dal momento che gli anticorpi umani diretti contro il dominio della proteina “spike” legante il recettore umano ACE2 (receptor-binding domain, RBD) sembrano produrre un effetto neutralizzante contro il virus nella maggior parte dei pazienti infetti, impedendo al virus l’entrata nelle cellule.
“La durata dell’immunità è ancora oggetto di studio – afferma il microbiologo – si stanno compiendo prelievi sequenziali sui pazienti contagiati all’inizio della pandemia per valutarla. Intanto risultati estremamente preliminari sembrano dimostrare che la quota anticorpale totale decresce nel tempo, ma è ancora tutto da confermare e occorre rilevare se la quota residua permanente sia sufficiente per prevenire nuovi infezioni”. Nella epidemia causata da un diverso patogeno della stessa famiglia coronavirus (SARS-CoV-1), gli anticorpi neutralizzanti sono apparsi stabili, nei soggetti infettati, per 16 mesi dopo l’infezione, riducendosi al 50-75% del valore iniziale dopo 4 anni e a meno del 10% dopo 6 anni.
Il discorso mutazioni
Gli esperti di tutto il mondo che analizzano il sequenziamento genico di Sars-CoV-2 rilevano le mutazione subite dal virus. “Fenomeno assolutamente normale – dice Carretto – soprattutto nei coronavirus, noti per mostrare un alto tasso di mutazioni spontanee. Le quali vanno sempre ponderate per capire se influiscono sulla risposta del virus o meno o sull’interazione con l’organismo umano”. Resta il fatto però, sottolinea Carretto, che anche in presenza di mutazioni i test sierologici mantengono la propria efficacia. “Questo perché il virus indipendentemente dalle mutazioni che possono avvenire nel genoma resta in genere ugualmente immunogeno. Una volta che stabilisce una relazione con l’ospite infatti, il virus genera una produzione di anticorpi, che non sono diretti verso una sequenza molecolare, ma bensì verso le glicoproteine di superficie o proteine del nucleocapside o altre parti del virus”.
Il caso dei positivi non contagiosi
Tornando invece all’utilizzo dei tamponi, proprio in questi giorni se ne discute l’impiego nei pazienti risultati positivi al SARS-CoV-2, non più contagiosi ma ugualmente costretti alla quarantena. L’indagine molecolare infatti, si basa sull’amplificazione di materiale genetico. Ma se questo riguarda residui non più vitali, la persona risulterà positiva pur non avendo una reale capacità infettante. “Se consideriamo che il picco di infezioni si è avuto a marzo/aprile e che l’apoptosi cellulare fisiologica delle prime vie respiratorie può attestarsi sui tre mesi, per poi avere un turnover fisiologico, c’è la possibilità di rilasciare genoma non vitale che può essere amplificato” aggiunge Carretto. A ben vedere, quindi, secondo il microbiologo sarebbe utile allestire protocolli in merito, che distinguano le situazioni. “Una buona norma sarebbe integrare i dati anamnestici del paziente, per sapere se ha sviluppato l’infezione, se è stata documentata, e l’eventuale risultato di tamponi. La comunità scientifica sta cercando di lavorare per risolvere questi dilemmi e porre indicazioni univoche in maniera da ridurre il rischio sia di avere soggetti infettivi che non vengono riconosciuti, ma soprattutto di trovare soggetti non infettivi costretti lo stesso a lunghe quarantene”.
I dati delle autopsie
Secondo Carretto, qualcosa in più si poteva fare dal punto di vista anatomopatologico. Un approccio che insieme alla conoscenza minuta dei meccanismi cellulari è molto utile per chiarire le condizioni indotte dalla malattia. “Auspico che possa esistere tra un anno una conoscenza più globale di COVID-19 da più punti di vista e in maniera multidisciplinare. Uno degli errori più comuni che è stato fatto è quello di aver applicato un approccio nei confronti della patologia basato sulle evidenze, quando evidenze non ce n’erano. Prima degli studi clinici atti a valutare molecole o approcci, sarebbe stato importante avere una conoscenza di base della patogenesi e della fisiopatologia dell’infezione, che potesse indirizzare meglio”. Insomma la strada verso la conoscenza di COVID-19 è ancora lunga, e richiede “attenzione, pazienza e umiltà”.