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Restituire voce e dignità ai pazienti epilettici: dall’Italia a tutto il mondo
Parla Francesca Sofia, neo eletta presidentessa dell'International Bureau of Epilepsy (IBE) che rilancia i temi dell'advocacy nell'approssimarsi della giornata mondiale dedicata alla patologia in programma il prossimo 8 febbraio
14 Gennaio 2021
Il mondo dell’epilessia parla italiano. Da dicembre scorso Francesca Sofia è la presidentessa eletta dell’International Bureau for Epilepsy (IBE). Già responsabile scientifico e consigliera della Federazione italiana Epilessia (FIE), nonché membro dal 2018 dell’European regional executive committee dello stesso IBE, Francesca Sofia è biologa molecolare specializzata in neuroscienze, economia e management sanitario e bioetica. Da alcuni anni è una patient advocate di livello internazionale ed è impegnatissima anche nella divulgazione (collabora con AboutPharma and Medical Devices sui temi del patient engagement). Nell’approssimarsi della giornata mondiale dell’epilessia, in programma il prossimo 8 febbraio, l’IBE ha organizzato la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi denominata “50 milioni di passi” che simbolicamente conta e mette insieme i passi letteralmente compiuti in ogni modo da volontari, ricercatori e donatori.
Cosa fa l’IBE?
Cerchiamo di influenzare le scelte politiche. Da anni lavoriamo insieme all’Organizzazione mondiale della sanità da anni e all’International league against epilepsy che raggruppa neurologi, epilettologi e migliaia di medici nel mondo. Adesso stiamo portando avanti azioni di lobby globale per sostenere il Piano d’azione mondiale contro l’epilessia, approvato a fine novembre. Il nostro modello può fare da apripista anche per altre patologie neurologiche: è fondamentale trovare una richiesta comune tra diversi gruppi di interesse per promuovere “the better health for all”.
Quali sono le vostre principali istanze?
Parliamo di una patologia estremamente negletta. Riceve molti meno finanziamenti in ricerca e sviluppo per numero di persone colpite rispetto a Parkinson, Sla, sclerosi multipla e distrofia muscolare pur avendo un numero di pazienti superiore a tutte queste messe insieme. Nel mondo contiamo 50 milioni di persone con epilessia, 6 milioni in Europa e 500 mila in Italia, con un un’incidenza che aumenta in età infantile e senile e una prevalenza in aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione. Le cifre sono conservative.
Su cosa deve concentrarsi la ricerca?
Partiamo dal fatto che nel 60-70% dei casi l’epilessia è tenuta sotto controllo da farmaci che prevengono le crisi. Ma il 30% o forse il 40% non risponde alle terapie. Queste persone hanno una storia difficile, vanno avanti tra prove ed errori: provano tutto quello che è possibile provare, cercando di convivere con le crisi. Aggiungo però che in età evolutiva crisi non controllate e protratte nel tempo si ritiene abbiano un impatto sullo sviluppo.
Prospettive terapeutiche a breve?
Nell’immediato non mi aspetto un “game changer” anche se esistono forme di epilessia rare per le quali è verosimile che terapie molto specifiche diano risultati significativi. Al momento oltre il 50% delle epilessie non ha una causa chiara e per tutte queste si continua a provare e fallire. Certo, negli anni i progressi farmacologici hanno assicurato minori effetti collaterali e in generale una migliore tollerabilità.
Come giudica la qualità dell’assistenza in Italia?
Siamo molto fortunati. Abbiamo una società scientifica (Lega italiana contro l’epilessia, Lice) che fa un’opera di informazione continua e forma costantemente i medici. Da noi esiste una forte specializzazione sulla malattia, una scuola storica di epilettologia, tanti ospedali che sono centri di riferimento di assoluta eccellenza. Questo “vantaggio” mi risulta evidente venendo a contatto con altre realtà nel resto del mondo. In Italia le visite sono programmate secondo piano terapeutico: il paziente sa quando deve andare al controllo periodico e la risposta alle urgenze è immediata. Con questo non voglio dire che va tutto bene…
Che cosa non funziona?
Alla Federazione italiana epilessie (FIE) di cui sono direttore scientifico, ci segnalano che sempre meno medici scelgono la specialità, soprattutto al Sud.
Come intende caratterizzare la sua missione di neo presidentessa IBE?
Mi sta molto a cuore dare voce, dignità, coraggio e competenza alle persone con epilessia e a chi è loro accanto. I pazienti sono sempre stati silenti e mi chiedo perché la rivendicazione dei propri diritti sia stata tradizionalmente delegata ai medici. Ma se manca la voce delle persone manca il pezzo cruciale nel puzzle della malattia: la discussione non è solo scientifica e clinica, ma etica, sociale, politica. Purtroppo è una storia che viene da lontano…
Da dove, da quando, perché?
La malattia è nota dai tempi dei Sumeri e la più antica citazione relativa alla malattia si rintraccia in un testo di medicina babilonese conservato al British Museum di Londra ed è sempre stata accompagnata da stigma e pregiudizi, che si gonfiavano o diminuivano a seconda delle culture e delle latitudini. Le convulsioni sono brutte da vedere. In alcune aree fino alla metà del ‘900 la gente associava l’epilessia alla possessione demoniaca e solo da qualche decade la prospettiva è cambiata.
Restituire coraggio, dignità e voce alla comunità dell’epilessia. In che modo, con quali strumenti?
All’interno di IBE intendo creare un’Accademia per i pazienti perché possano imparare a farsi sentire. La loro voce deve essere espressa in maniera rigorosa e appropriata, partendo dalla necessità di monitorare meglio il loro stato di salute. Credo molto nelle nuove tecnologie e nella digital health. Sono convinta che proprio grazie a questa tecnologia troveremo il modo di intercettare per tempo e controllare le crisi. Perché questo possa accadere dobbiamo essere bravi e ingaggiati a monitorare i dati, annotarli e fornirli anche con i wearable devices. Solo una comunità bene informata può farlo. Sono anche disposta ad avere una crisi in più pur andare in piscina o a scuola con più tranquillità. Non mi aspetto la cura miracolosa di qui ai prossimi dieci anni, ma se c’è l’intersezione tecnologica la vita delle persone cambia. Anche le digital company devono ascoltarci: al momento nessuna app ha tutto quello che serve.