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Cercando il secondo caso per dare un nome alle malattie più rare

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Cercando il secondo caso per dare un nome alle malattie più rare

di Cristina Tognaccini  malattie rare

   Per Rodrigo, come per molti altri bambini più grandi o piccoli di lui, molta parte dell’infanzia è stata un’odissea diagnostica. Accompagnato dalla propria famiglia ha girato diversi centri pediatrici italiani per dare un nome alla patologia complessa che, sin da quando è nato, ha compromesso significativamente il suo sviluppo psicomotorio. Dopo otto anni e molte analisi (la maggior parte delle quali inutili) i clinici hanno scoperto che la malattia da cui è affetto Rodrigo è una nuova forma di artrogriposi a ereditarietà recessiva. Nessun esame rivoluzionario dietro – se non l’analisi del genoma, ormai nota e sempre più facile ed economica da eseguire – ma la conferma è arrivata da un altro bambino che dall’altra parte dell’oceano, in Messico, manifestava gli stessi sintomi: un secondo caso della stessa rarissima malattia di cui si è venuti a conoscenza grazie a una rete internazionale.

    La diagnosi è stata formulata raffrontando l’esito dell’analisi dell’esoma (parte codificante del genoma responsabile della sintesi delle proteine) con i dati di un bambino che aveva anch’egli contratture articolari multiple, scoliosi, gravi problemi respiratori, difficoltà ad alimentarsi e a urinare, ritardo cognitivo. Nel piccolo paziente messicano i ricercatori avevano riscontrato un difetto genetico mai associato finora a questo quadro patologico. La seconda diagnosi in casi di malattie rarissime come quella di Rodrigo, è la conferma che permette di correlare un difetto genetico a un insieme di sintomi e di dare un nome alla malattia. Ma è anche un punto di partenza per bambini e genitori.

Risparmiare tempo e denaro

In Italia da due anni è attivo il programma Telethon “Malattie senza diagnosi”, lo stesso che ha permesso di risolvere il caso di Rodrigo, nato proprio con lo scopo di diagnosticare malattie ultra-rare che riguardano per lo più i bambini. Un progetto pilota della durata di tre anni, al termine dei quali la speranza non è solo che Fondazione Telethon possa continuare a finanziarlo, ma soprattutto che il Servizio sanitario nazionale lo faccia proprio. Se l’analisi dell’esoma diventasse una prassi di routine infatti, sarebbero molti i vantaggi. “I dati sono sempre soggettivi perché legati a singoli pazienti – spiega Giorgio Casari coordinatore del programma di Medicina genomica dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) – però abbiamo indicazioni che l’odissea diagnostica di alcuni pazienti può costare fino a 10-12 mila euro mettendo insieme le spese di tutti i test, analisi, risonanze e qualsiasi esame fatto per cercare di diagnosticare la malattia. Casi che, per la maggior parte, potrebbero essere risolti prima e con meno risorse se come step iniziale venisse eseguito il sequenziamento genico. Esame che può costare intorno ai mille, mille e cinquecento euro per paziente, a seconda poi delle tecniche e dalla profondità del test”. Casari – che è anche a capo del programma – spiega che oggi si è a conoscenza di 6.200 malattie genetiche. Solo per due terzi di queste si sa quali siano i geni responsabili, mentre per le altre non sono ancora noti. Motivo per cui, non essendo ancora classificate, sono anche molto dicili da diagnosticare. Alcune famiglie dopo sei, sette anni non hanno ancora trovato una risposta e i bambini sono orfani di diagnosi.

La rete italiana

Il progetto “Malattie senza diagnosi” è coordinato dall’Istituto Tigem di Pozzuoli (Napoli) che, come ricorda Lucia Monaco, responsabile del centro studi di Fondazione Telethon, “ha un’unità dedicata proprio alla genomica e possiede un’infrastruttura in grado di svolgere queste analisi”, ma si estende su tutto il territorio nazionale. Oltre al centro napoletano vi aderiscono anche la Fondazione Mbbm presso l’ospedale San Gerardo di Monza e l’Azienda ospedaliera universitaria “Federico II” di Napoli. Il primo anno ne faceva parte anche l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, “poi staccatosi per intraprendere un programma autonomo – come racconta Monaco – ma con il quale continuano collaborazioni e contatti.

Nel tempo si sono aggiunti altri nove centri tra Nord, Centro e Sud – continua – (tra cui l’Ospedale S. Anna di Como, l’Istituto Gaslini di Genova, l’Ospedale Meyer di Firenze, il Policlinico Gemelli e il Policlinico Umberto I di Roma, il Policlinico “Vittorio Emanuele” di Catania, l’Oasi Maria SS. di Troina, in provincia di Enna), in modo da costituire una vera e propria rete in grado di raccogliere numerosi casi. In più abbiamo messo a disposizione dei medici di famiglia una scheda di accesso, per cui può essere lo stesso pediatra a presentare direttamente il caso al programma. Spesso si tratta di sindromi, patologie che colpiscono diversi organi, quindi molto complesse, che non sono riconducibili a una casistica comune e codificata. Per questo a volte i pediatri o i medici di base non le riconoscono e segnalano il caso”. Particolare non secondario: per l’analisi dei dati il Tigem si avvale della collaborazione del consorzio interuniversitario Cineca.

La caratterizzazione clinica

Parte fondamentale del progetto è anche la caratterizzazione clinica che precede e completa l’analisi genetica. Tutti i casi orfani di diagnosi possono essere segnalati al programma attraverso una piattaforma web. Qui sono esaminati e smistati nei diversi centri coinvolti. A volte sono rimandati al pediatra suggerendogli di fare alcuni accertamenti. Altre volte – quando sono già stati raccolti tutti i dati necessari – vengono presentati al meeting plenario dei clinici, durante il quale si decide se il caso è adatto per essere studiato con il sequenziamento. Non tutti i casi arrivano dunque all’analisi del genoma, perché alcuni si risolvono già durante le riunioni periodiche a cui partecipano centri con competenze specifiche ed esperienza anche su casi molto rari.

Il sequenziamento genomico

Il core del programma è il sequenziamento di nuova generazione del Dna (Next generation sequencing – Ngs) e in particolare dell’esoma – a partire da un semplice prelievo del sangue – oggi possibile grazie alle tecnologiche che lo hanno reso più veloce, economico e quindi sostenibile. Ma anche grazie al supporto di un’elevata potenza di calcolo informatica e di strumenti di bioinformatica che permettono di analizzare le informazioni ottenute con il sequenziamento. “Una volta analizzato l’esoma infatti bisogna essere in grado di comprendere se le varianti rilevate rispetto alle sequenze di riferimento, sono associate alla nostra variabilità individuale oppure sono vere e proprie mutazioni che causano la malattia” precisa Monaco.

Per questo viene analizzato anche il genoma dei genitori ed eventuali fratelli sani. La procedura denominata “trio familiare” permette di aumentare le probabilità di successo nell’identificazione delle varianti del Dna associabili al fenotipo clinico. “È un approccio migliore rispetto ad altri perché fa una ricerca a tappeto su tutto l’esoma, su tutte le istruzioni che codificano per delle funzionalità cellulari” aggiunge Monaco. “È una sfida che è stata accolta a livello globale da molti paesi tra cui l’Italia appunto, per dare una risposta sia ai pazienti e le famiglie che ce lo chiedevano, sia agli stessi clinici che conoscendo l’esistenza di tali strumenti ci domandavano come averne accesso”.

La seconda diagnosi

I risultati ottenuti dall’analisi genomica sono poi condivisi con la comunità scientifica internazionale mediante l’utilizzo di piattaforme informatiche come Phenome Central. Sistema che permette l’identificazione di possibili altri pazienti nel mondo, con lo stesso profilo clinico, per confermare la diagnosi. “Quando si trova un altro caso, con la stessa mutazione associata allo stesso fenotipo, cioè la manifestazione clinica della malattia, si ha una convalida della diagnosi molecolare” afferma Monaco. “È un passaggio fondamentale in caso di malattie rarissime, ed è il motivo per cui lavoriamo dentro una rete internazionale di malattie senza diagnosi”. Casari spiega che l’identificazione del secondo paziente è il punto di svolta. Spesso si ha un singolo caso, in cui i ricercatori trovano una mutazione consistente con quella patologia ma è impossibile refertarlo al paziente senza una conferma. Non si può infatti formulare una diagnosi sulla base del singolo caso. Per questo il programma italiano è inserito nel network internazionale Udni (Undiagnostic disease network international) e afferisce a un database che raccoglie tutti i soggetti con una sintomatologia ben descritta e le mutazioni identificate (che possono essere anche molteplici e riguardare più di un gene). La banca dati è accessibile a tutti gli altri progetti undiagnosed sparsi per il mondo come negli Stati Uniti, Giappone, Australia, Canada, India e Corea.

Un po’ di numeri

Durante i primi due anni sono stati raccolti 342 casi di cui 290 discussi durante i meeting clinici plenari, e 240 inviati al sequenziamento. L’obiettivo del programma triennale era, come ricorda Casari, occuparsi di almeno 350 casi pediatrici. “Siamo in linea con quanto ci siamo preposti e probabilmente supereremo anche il nostro obiettivo” afferma fiducioso. “Con una diagnosi raggiunta nel 45% dei casi abbiamo un tasso di successo simile alle migliori prassi internazionali”. I numeri ottenuti dal progetto malattie senza diagnosi sono infatti paragonabili a quelli di realtà come gli Nhi, nei primi anni, in un paese molto più grande, come precisa Monaco.

L’importanza di un nome

Certo, dare un nome alla malattia non risolve il problema ma è un buon punto di partenza. Prima di tutto perché per le famiglie finisce la fase di “buio”: iniziano ad avere riferimenti e possono confrontarsi con persone che affrontano lo stesso problema, scambiandosi informazioni anche pratiche. Inoltre a volte questi incontri portano alla nascita di associazioni per fronteggiare insieme la patologia e i disagi connessi. Casari però sottolinea che dare un nome alla malattia non solo permette alle famiglie di associarsi ad altre famiglie con pazienti simili, ma è il primo step per una possibile terapia. “È chiaro che non per tutti pazienti si può subito ipotizzare una cura”, prosegue. “Per esempio per alcune malattie metaboliche, che sono la maggior parte e sono devastanti se non curate in tempo, si può agire in maniera efficace anche con farmaci già noti o addirittura con la dieta. Quella che ci fornisce l’analisi genetica è un’informazione importantissima, ed è il punto di partenza per ipotizzare una terapia genica”.

In cerca di una terapia

Anche se oggi la terapia genica sta compiendo passi da gigante e di fronte a malattie di questo tipo è la prima soluzione a cui si pensa, mettere in atto tale approccio è molto complesso. Esistono però anche vie alternative come la ricerca di “small molecules”: farmaci magari già presenti sul mercato e di vecchia data che sostituiscano la funzione del gene inattivo, mutante. “Molto del nostro lavoro è questo – racconta Casari – al Tigem abbiamo una facility interna (high content screening), in cui vengono studiate le cellule dei pazienti (per lo più fibroblasti derivati da un pezzettino di cute dei pazienti) che testiamo migliaia di molecole approvate dalla Fda, con brevetto scaduto e di categorie farmacologiche diverse. Grazie a un sistema automatico di screening viene valutato quale prodotto può riportare le cellule mutanti al fenotipo normale. Per noi è importante anche perché l’identificazione di molecole note ed efficaci apre la strada allo studio di altri prodotti simili e migliori. Inoltre ci aiuta a scoprire meccanismi biologici nuovi che possiamo utilizzare per ampliare la biologia di base della malattia. Se so che un farmaco agisce su un recettore, posso ipotizzare che sia parte del meccanismo patogenetico della malattia per esempio”.

Una richiesta per il ministro

Tutto quanto fatto finora è stato finanziato da Telethon, i cui fondi però non sono infiniti. Al termine dei tre anni si auspica che il progetto venga di nuovo rifinanziato vista l’importanza e i risultati raggiunti. Monaco spiega che è un programma importante e strategico che vogliono portare avanti, ma che dovranno fare comunque i conti con i fondi a disposizione. “Ogni anno facciamo il punto e decidiamo quali sono i programmi che possiamo permetterci di continuare a sostenere – conclude – perché purtroppo abbiamo molti più bei progetti che fondi per sostenerli. L’idea comunque è di proseguire, magari con aiuti esterni. L’obiettivo a lungo termine infatti è che diventi una prassi del Ssn”. Casari in aggiunta riferisce che alla chiusura del progetto presenterà una relazione al ministero della Salute, in cui verranno mostrati i risultati ottenuti. “D’altra parte quello che stiamo facendo è una grande messa a punto di un protocollo diagnostico che mi augurerei venisse adottato dal Ssn. Sarebbe un risparmio anche per lo Stato. Di fronte a malattie genetiche complesse sarebbe auspicabile che l’analisi del genoma diventasse il test di prima scelta. E solo dopo, con una diagnosi in mano, si passi a indagini più approfondite e mirate”.


Fonte: aboutpharma.com
URL:https://www.aboutpharma.com/blog/2018/08/28/cercando-il-secondo-caso-per-dare-un-nome-alle-malattie-piu-rare/